È sabato pomeriggio e Matteo è andato al parco con i suoi compagni per fare una partita di calcio contro i ragazzi più grandi del quartiere. Poco prima dell’ultimo gol, quello che deciderà la sfida, Mattia vede avanzare l’attaccante della squadra avversaria. Decide di contrastarlo con un fallo piuttosto irruento, e lo atterra. I compagni recuperano la palla e segnano in contropiede. Tra i compagni, Matteo diventa l’eroe, quello che ha salvato la partita. Ma l’attaccante della squadra avversaria non la pensa così: a un certo punto, gli si avvicina e gli sussurra qualcosa di incomprensibile all’orecchio, poi si allontana. Il giorno dopo, Matteo trova un messaggio nella chat di Facebook. Il mittente è il ragazzo più grande, e il testo è una minaccia con un chiaro riferimento alla partita di sabato. Passano venti minuti, e all’indirizzo di posta elettronica di Mattia arriva una mail: l’oggetto è una provocazione. Un’ora dopo arrivano altre quattro mail che contengono foto violente. L’oggetto è un raggelante: “Vuoi finire così?” Matteo non perde la calma, e decide di lasciar perdere. Spera che il ragazzo più grande prima o poi si stancherà. Ma non è così. Dopo una settimana, Matteo ricomincia a ricevere almeno dieci messaggi di minaccia su Facebook e tre mail diverse ogni giorno, piene di dettagli su cosa potrebbe succedergli se si facesse trovare in giro da solo.
Matteo inizia ad aver paura e comincia a non voler più uscire di casa da solo. Rinuncia persino a fare il suo solito giro in bicicletta per il quartiere, cosa che aveva sempre adorato fare subito dopo pranzo. Dopo un mese i messaggi aumentano ulteriormente, ma Matteo preferisce non parlarne con nessuno per non fare la figura del codardo. Ma ora non esce praticamente più: anche quando è in compagnia non si sente sicuro e le rare volte che si trova con gli amici passa tutto il tempo a guardarsi intorno, preoccupato.
“Che cosa c’è? Tutto a posto?” gli chiede il suo miglior amico Michele.
Matteo minimizza: prima o poi quel ragazzo smetterà di minacciarlo. Forse.